Quel vestito azzurro di fiori, resterà nell’armadio. L’ho comprato qualche settimana fa, nella speranza che il covid non ci avrebbe rubato un’altra stagione ed io sarei tornata alla vita di prima.

Neanche quest’anno avremo una primavera, noi umani intrappolati in un tempo immobile da un virus che ha fermato le nostre vite.
Un vestito lungo, leggero da non lasciare niente all’immaginazione. Azzurro come quel cielo, che mi tocca alzare il naso per sbirciarlo tra i palazzi dalle finestre del mio bilocale.

Sono sfinita, siamo tutti sfiniti che ogni volta che si inizia ad intravedere una flebile luce che ci dovrebbe finalmente guidare fuori dal tunnel, arriva la variante la qualunque.
Virologi mainstream e mezzi di informazione, guidano il gioco al massacro spegnendo ogni nostra aspettativa a tornare alla vita di prima.
I vaccini dovrebbero essere l’unica strada per uscire dall’incubo, ma poi qualcuno muore dopo una inoculazione e il panico si diffonde tra la popolazione. 

I fan del virus fanno sentire sui social la loro voce. Quelli ai quali va bene così, quelli che hanno trovato nella tragedia finalmente la loro dimensione. Si ergono a paladini del rigore, delegati a salvare la Patria senza neanche dover alzare il culo dal divano. Pubblicano foto di assembramenti, commentano indignati di feste di compleanno di bambini che poi si contagiano e mandano in rianimazione i nonni. Gli stessi nonni che loro stessi hanno impiegato come baby sitter, per potersi intascare il bonus.

Ai fan del virus non importa di tornare alla normalità, perché la loro normalità era vuota, ma a me importa. Non chiedo altro che tornare quella di prima.

La paura coltivata e accudita non è altro che un fertile humus del male
      Raul Gabriel 

Siamo stanchi di avere paura, terrorizzati di ogni sorriso da una mascherina abbassata. Siamo stanchi di negare l’altro per salvarci.
Il corpo è diventato il nemico pubblico numero uno. Non ti tocco perché mi potrei ammalare. Non ti abbraccio, perché ti potrei infettare. Un’epidemia di solitudine e sospetto, un po’ alla volta sta disintegrando i valori di unità e fratellanza che sono alla base della nostra evoluzione. L’accoglienza e la condivisione, sono una minaccia alla salute pubblica. La convivialità e il gioco, un’oscenità figlia di un eccesso di imprudenza.

Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo trovati su una stessa barca fragili e disorientati, ma allo stesso tempo importanti e necessari, chiamati a remare insieme e a confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti. E ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo. Ma solo insieme.
Nessuno si salva da solo 
              Papa Francesco 

Nessuno si salva da solo, ma non più come prima.


Del frate pietoso che pulisce le ferite infette al lebbroso, la folla oggi reclamerebbe la testa


Ci imboniscono offrendoci abbracci in digitale e non si accorgono del disumano che striscia in noi.
Smart working che ci fa rimpiangere persino la coda in tangenziale. Bambini e ragazzi in DAD, che manifestano un disagio fatto di capricci e lacrime e rabbia urlata al genitore se va bene. Ma se va male tra i 10 e i 25 anni, il suicidio diventa la seconda causa di morte.
La morte, che avevamo rimosso dalle nostre vite, che ci eravamo dimenticati che qui siamo solo di passaggio. 

Eppure si muore anche per una banale influenza, che quel che per una persona sana è banale per un fragile diventa letale

Nella stagione invernale  2016-2017, abbiamo perso quasi 25.000 persone in più a causa delle complicanze dell’influenza. Poche di meno nella stagione precedente. Il covid ne ha portate via il doppio, perché più contagioso, perché più letale. Perché anni di tagli alla sanità pubblica, hanno mandato il personale sanitario in trincea con stivali di cartone e fucili di latta. Perché noi mondo eravamo impreparati, eppure in tanti avevano gridato al disastro, in tanti ci avevano avvisati. Abbiamo preferito chiudere gli occhi e aspettare l’onda di piena che tutto trascina in alto mare.

Abbiamo devastato il pianeta, ci siamo moltiplicati come cellule tumorali. Morso la mano che ci nutre e questo virus è un debito che non riusciamo a pagare

La vita di prima ci guarda da lontano, che a volte non la riesco a ricordare. Non ricordo l’ultimo abbraccio dato e le labbra di chi ho amato di carne e cuore.
Non ricordo le serate intorno ad un tavolo e le risate. La vita di prima mi guarda da lontano e non riesco a ricordare l’ultima volta che ho cantato a squarciagola dietro qualche cantante ad un concerto. Diviso una birra dallo stesso bicchiere con un altro. Non riesco a ricordare cosa facevo prima della pandemia.
Mi sto adattando alla vita di adesso, che mi sale il vomito solo a pensarci ma il cervello si adatta ad ogni cambiamento per non farci uscire pazzi.

Non voglio dimenticare e allora me la racconto da sola la vita che era

Me la scrivo come un romanzo. Me la appunto scrivendomi con la penna a biro le mani.
Me la appunto su post it gialli e sulle note del mio smartphone.
Mi racconto i visi per strada e le tonalità di rossetto di ragazze e signore. Mi racconto gli aeroporti e le stazioni che in qualche città mi hanno portata. Mi racconto la fila per entrare al museo e gli applausi a teatro.
Mi racconto le urla per un goal fatto allo stadio. Mi racconto il mare e gli amori lontani. Mi racconto di ogni sorriso e ogni dolore lasciato altrove. Mi racconto la vita che era e che non voglio lasciare andare.

Sono La Principessa Astronauta e il mio vestito azzurro di fiori resta nell’armadio della navicella spaziale. Lo indosserò poi, aspettando la vita di prima ritorni

 

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