Non è che quando non c’era internet non ci fosse l’hate speech perché incitare all’odio verso una persona o un gruppo di persone probabilmente risale all’alba dell’umanità, anche se immagino a quel tempo si risolvesse la cosa a colpi di clava.
Il fine dell’hate speech non è la diffamazione, non è il parlare male della nuova fidanzata del tuo ex, quell’oca finta bionda con due tette pure loro talmente finte che i pneumatici della mia auto sono più sexy.
No, l’hate speech è fomentare un sentimento distruttivo, un attacco terroristico ad personam, uno tsunami di sangue ed escrementi verso qualcuno, in una parola: odio.
Pubblico qualcosa, preferibilmente su un social, qualcosa che scatenerà verso la finta bionda con le finte tette una marea di odio che la travolgerà.
Una marea nera che non si può fermare, perché tentare di bloccare qualcosa finito online è come buttare un sasso in uno stagno e pretendere poi di fermare i cerchi nell’acqua con le mani. Quello che è in rete si moltiplicherà all’infinito, da occhi ad altri occhi fino a quando magari perderà interesse ma certo non verrà dimenticato, perché il web è programmato per non dimenticare.
Non è che quando non c’era internet non ci fosse l’hate speech e io molti anni fa ne ho avuto un assaggio e, vi assicuro che ha veramente un sapore di merda. Ve lo voglio raccontare che era diverso il mezzo, ma il fine resta sempre quello.
Nel mio viaggio astrale, sono anche stata una cantante di un genere che ancora oggi viene considerato prevalentemente “roba da maschi”: l’Heavy Metal. In realtà sono stata la prima cantante donna di un genere estremo in Italia e una delle prime in Europa.

Heavy Metal, la musica del Diavolo, diavolo rigorosamente maschio per altro.
Ho iniziato a cantare nel1982 che avevo solo 15 anni rispondendo di nascosto ai miei ad un annuncio di una band. Cercavano “un” cantante, ma io di quell’articolo indeterminativo maschile me ne fregai.
Il numero di telefono da chiamare era quello del chitarrista, Attilio, che dopo un po’ di stupore e qualche resistenza si decise ad incontrarmi, ma a patto fossero presenti i miei genitori.
In effetti io la musica del diavolo me la immaginavo un po’ più trasgressiva, una roba tipo:
non dire niente ai tuoi, ci vediamo la prima notte di luna piena al Cimitero Monumentale a mezzanotte davanti alla tomba di Fred Buscaglione, indossa un gatto nero come sciarpa per farti riconoscere.
Niente di tutto questo ma tanto mio padre disse ok, anche perché Attilio aveva il doppio dei miei anni e due occhi buoni poi strappati troppo presto al mondo.
Ad Attilio piaceva la mia voce e per lui non era un discrimine essere una ragazza se sei brava. Era avanti anni luce Attilio con la sua chitarra a freccia.
Alla prima prova venni accolta dagli altri componenti della band come si accoglie un herpes: pazienza ed antibiotico che tanto poi passa.
La pazienza era la mia e l’antibiotico erano gli attacchi continui degli altri due componenti della band.
Sei una ragazza, nessuna ragazza può cantare Metal. Sei una femmina, non sei adatta.
Alla fine però solo il bassista mi odiava davvero, odio da me peraltro ampiamente ricambiato, e visto che la ragazza aveva la pazienza di un monaco tibetano ed era antibiotico resistente, fu lui a lasciare la band non prima di assestare un ultimo colpo.
Ricordati che su un palco tu sei nuda. Noi abbiamo uno strumento dietro al quale nasconderci, ma tu sei completamente nuda ragazzina e non ti puoi nascondere dietro un microfono.
Un vero stronzo sessista ma quelle parole erano rozzamente sagge, addirittura salvifiche ed ogni volta che sono salita su un palco, me le sono ripetute a sterilizzare la paura.
Sono nuda, come completamente nuda sono adesso che scrivo. Il corpo non fa sensazione, ma l’anima quella sì che fa paura a doverla mostrare in tutti i suoi difetti, in tutte le sue deformità. Basta non scordarselo.
Continuai a cantare, arrivarono altre band e tanti concerti e poi le registrazioni in studio e le recensioni positive, ma farsi accettare non era per niente facile. Ero giovane ma avevo ben chiaro in testa chi ero, ero orgogliosamente una donna e non avrei negato la mia femminilità per raccattare consensi.
Il mio sesso non era negoziabile e questo li faceva schiumare di rabbia. Ero brava, più brava di tanti lor signori maschi e non avrei mortificato la mia femminilità indossando scarpe da basket al posto dei tacchi per assomigliare a nessuno di loro. Ero bella ma la bellezza è un coltello senza manico e quando sei giovane a maneggiarlo rischi di tagliarti. La usai senza pudore perché pensavo che se non mi avessero amata, almeno mi avrebbero desiderata.
La usai ma stando sempre in campana perché, se fossi inciampata mi avrebbero calpestata.
Arrivò l’occasione della vita, fare da gruppo spalla ad una grossa band inglese nel loro concerto al Palazzetto dello Sport di Torino. Tra le molte cassette demo arrivate da tutta Italia, gli organizzatori scelsero quella della mia band. Scelsero una ragazza per cantare davanti a 6000 persone una musica da maschi.
Avevo 18 anni e ricordo tutto. Salii su quel palco con addosso un vestitino nero sgualcito e bruciacchiato come una strega risorta dal rogo. Nascosta sotto un tulle nero, in mano un mazzo di fiori appassiti listati a lutto da un nastro viola. La platea fischiava mentre la musica iniziava, ma non fa niente perché nessuno vuole vedere il gruppo spalla. Cantavo più forte che potevo che la voce non mi mancava per farmi ascoltare che quella era la mia occasione e non la potevo mancare.
Ad un certo punto però i fischi cessarono.
Il pubblico ci apprezzava o era solo la grazia che si concede al condannato a patto che poi se ne vada a casa e non lo faccia mai più.
I fischi cessarono ma non da un settore delle gradinate, perché lì continuavano e i fischi poi erano cori dove l’unica parola che riuscivo a distinguere dal palco era puttana. Non bastava perché alle iene non basta mai e allora srotolarono un lungo striscione con sopra scritto
“Cicciona Go Home”.
Senza smettere di cantare, istintivamente mi girai verso l’uscita del palco che volevo solo scappare.
Avevo gli occhi pieni di lacrime, che si scioglieva il trucco nero e faceva pure male.
Mi urlavano puttana e vabbè ma pure cicciona mi sembrava persino peggio perché ero bella o almeno fino a quel momento avevo creduto di esserlo. Mi colpivano nella più frivola delle mie certezze, cercando con quello striscione il consenso degli altri spettatori in una affollata pubblica gogna. Mi girai verso il tunnel dal quale si usciva dal palco senza smettere mai di cantare e c’erano il tour manager e il cantante della band inglese seduti su un flycase a vedersi il nostro concerto. Le mie lacrime incrociarono i loro occhi che mi obbligavano a restare.
“Don’t move, girl. Go on, baby, go on!”
Leggevo il labiale scandito bene e con il pollice insù, che quel gesto lo senti anche sotto il fuoco di decibel da un muro di amplificatori da stadio.
Avevo 18 anni e ricordo tutto. Ricordo che mi vergognavo, che per un dannato momento il mio io con tutte le mie scelte, vacillava risucchiato in quell’odio che mi bolliva il cervello a farlo scoppiare.
Chi me l’ha fatto fare? Forse hanno ragione loro, forse avrei dovuto solo essere la ragazza di qualcuno senza volerli sfidare. Ricordo tutto, che ero nuda davvero come mi aveva detto il bassista stronzo che ovviamente faceva parte della cricca dei contestatori poi mi dissero.
Ero nuda che quello striscione mi aveva strappato pure la pelle, ma lui aveva torto perché se dietro ad un microfono non ti ci puoi nascondere, lo puoi comunque usare come spada.
Ricordo tutta la battaglia e ricordo che il pubblico in pochi istanti reagì e cominciò ad inveire in coro contro quello striscione.
Un esercito ben più numeroso del nemico, era venuto a supportarmi.
I contestatori ritirarono immediatamente lo striscione, prima che qualcuno glielo facesse ingoiare. “Scemi Scemi” gli urlavano come si fa alle partite di calcio con il braccio puntato nella loro direzione, in un movimento ritmico a disegnare un’onda che spazza via la merda della risacca.
I contestatori erano band e amici di band rifiutate per salire su quel palco.
Ai loro capelli lunghi e giubbotti in pelle, l’organizzatore aveva preferito una ragazza e questo loro non lo potevano sopportare.
A sto giro gli inadatti erano loro e non erano strutturati per poterlo affrontare. La rivoluzione era lì su quel palco e schiumavano atterriti, mentre una regina abrogava sotto i loro occhi la Legge Salica nel Metal.
Avevo 18 anni e il concerto era finito e arrivarono pure gli applausi che io non potevo sentire, perché le lacrime che avevo ingoiato mi avevano annegato le orecchie. Il cantante della band inglese alla mia uscita mi venne incontro e con un sorriso, mi rassicurò raccontandomi che lui ad inizio carriera era stato pure preso a bottigliate, non era niente questo. Il manager mi propose di continuare il loro tour italiano come gruppo spalla, ma dissi no con la morte nel cuore. Ero all’ultimo anno di liceo, non si poteva fare.
Ho due rimpianti nella vita, uno è questo.
Mi infilai i jeans e corsi fuori nel piazzale. Mi sedetti sul marciapiede in mezzo ai tir della band che dovevo piangere adesso o sarei affogata.
Uno dei loro driver si sedette accanto a me ed io lo invitai in perfetto inglese ad andarsene affanculo. Mi porse la sua bottiglia di birra senza parlare.
Avevo 18 anni e ricordo tutto. Ricordo che si chiamava Michael e aveva dei lunghissimi capelli biondi che scendevano su un viso da angelo stanco.
Diedi completamente di matto ad un certo punto e gli urlai addosso che mi avevano chiamata cicciona e lui rideva, rideva tanto che gli mancava il fiato e io mi incazzavo come un puma perché non c’è niente da ridere se ti urlano puttana cicciona e poi non ero cicciona o lo pensava pure lui?
Ero infuriata e la sua birra era calda e sapeva della sigaretta che aveva appena fumato. Ero arrabbiata che quello striscione mi sembrava avesse incartato tutto il mondo in un giro di carta igienica con sopra stampato il mio nome a caratteri cubitali.
Avevo 18 anni, lui 25 e le sue labbra sapevano di sigaretta e birra calda.
Non ricordo tutto e anche lui mi avrà dimenticata.
L’odio perde sempre e questo vi assicuro io non l’ho mai dimenticato.
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